È stata una notte strana, di quelle che non si scordano, che lasciano il segno. È iniziata come ogni serata: l’incontro in piazzetta, con i lampioncini che creano quel riflesso giallastro su ogni cosa, il contatto del freddo granito delle scalette su cui ogni volta mi siedo. Il vecchietto che passa, mi guarda, scuote il capo come ad affermare tutta la sua disapprovazione e affretta il passo, ma non può sapere. Al solito mi do uno sguardo, come fossi allo specchio, ammetto a me stesso che se mi vedessi da fuori, neanche io mi darei due spicci. Non ho mai badato alla forma, all’estetica o ai vestiti. Questo mio aspetto risalta effettivamente su come poi mi presento, o per meglio dire, su come gli altri mi vedono.
Ho i capelli rasati a zero, la barba lunga una decina di centimetri, gli occhiali da sole color ambra appoggiati sulla fronte, un paio di jeans vecchi e logori con una piccola macchiolina all’altezza del ginocchio sinistro, una maglietta nera a maniche corte e gli scarponcini da lancio, regalo di un mio amico durante un suo viaggio in Israele.
Arriva, mi alzo e la guardo, a vederla chiunque penserebbe che una così starebbe lontana un miglio da uno vestito come me. Tacchi alti, un pantalone attillato a vita bassa, camicetta nera semitrasparente, trucco leggero ma impeccabile, capelli raccolti in una coda di cavallo, le labbra che si aprono in un sorriso che farebbe innamorare chiunque. E gli occhi, quegli occhi… Due meravigliosi pozzi neri in cui perdersi e abbandonarsi totalmente.
Voleva camminare e già da questo avrei dovuto capire che qualcosa non andava.
Passeggiavamo per le viuzze del paese, scambiando qualche battuta. Aveva bisogno di dirmi qualcosa ma forse non sapeva come prendere il discorso. Io restavo quasi in silenzio. Ero in attesa della bomba che di lì a poco sarebbe esplosa.
Nei suoi occhi si leggeva tristezza. La conoscevo da sempre e da sempre riconoscevo certi suoi segnali.
Continuando a camminare apparentemente senza una meta precisa, mi ha portato fino al campo dove io tempo addietro giocavo a rugby. Il cancello era chiuso, i riflettori spenti, ma le luci del parcheggio erano accese. C’era un piccolo parco giochi con altalene e un castello di legno. Era lì da sempre. Una volta era in rovina perché nessuno se ne curava ma i ragazzi della squadra lo avevano sistemato raccogliendo fondi con qualche partita di beneficenza. Ora l’erba del prato era praticamente perfetta, il giochi per i bambini nuovi o ristrutturati alla perfezione e le tre altalene non cigolavano più come una volta. Sul lato opposto del grande parcheggio un piccolo barettino sistemato dentro un chiosco gestito da un ex giocatore della squadra. Stava chiudendo, aveva già spento l’insegna. Mi sono avvicinato e mi sono fatto dare una birra in bottiglia e una lattina di coca cola, poi sono tornato verso il parco giochi.
Lei si era seduta su una delle altalene, io con la birra in mano mi sono piazzato sul prato, proprio di fronte a lei, con le gambe incrociate.
Stava piangendo in silenzio e ne sono rimasto sconvolto. Le ho visto fare migliaia di cose ma mai piangere. Le lacrime le rigavano il viso, aveva in mano la lattina ma non l’aveva neanche aperta, se la passava da una mano all’altra, era nervosa.
Era solita essere sempre brutalmente diretta, mi piaceva anche per questo: guardava in faccia le persone e non si faceva scrupoli a dire le cose come stavano. Ma quella sera non parlava.
Mentre cercavo le parole adatte per sbloccare quel suo silenzio carico di lacrime, ha detto “me ne vado, accompagnami all’aeroporto, ho il volo tra quattro ore”.
Il suo lavoro le consentiva di viaggiare molto. Ho creduto fosse uno dei suoi soliti viaggi, di quelli che l’avrebbero fatta rientrare qui nel giro di un paio di settimane, ma quelle lacrime mi confermavano un addio imminente. Mi ha spiegato che si sarebbe trasferita in Canada. Aveva deciso di stabilirsi lì. Stava organizzando la cosa da molto tempo, il grosso della sua roba era già stato spedito. Doveva essere in aeroporto di lì a tre ore.
Non riuscivo a parlare. Avevo la testa piantata su una cartina geografica immaginaria e cercavo di capire quanto fosse lontano il Canada.
Sapevo che un qualsiasi coinvolgimento tra me e lei sarebbe stato impossibile, per mille motivi, ma in quel momento pensavo solo a cosa avrei fatto senza di lei.
Cercavo di capire perché mi stava facendo un torto simile.
Perché, lei che mi diceva sempre tutto, improvvisamente sembrava sconosciuta.
In quelle poche ore non ho trovato risposte ma altre mille domande che sarebbero rimaste per un bel pezzo un gran cruccio.
Avevo sempre il pieno alla macchina, ma ci siamo fermati comunque all’autogrill in autostrada, per un caffè, o forse per cercare di allungare il tempo della sua presenza al mio fianco.
Era buio, l’asfalto scorreva veloce sotto l’auto, dalle casse dello stereo usciva musica ma io non la ascoltavo, l’alberello profumato attaccato allo specchietto era nuovo ma non sentivo il profumo. Oltre a guidare, l’unica cosa che facevo era lanciarle di tanto in tanto delle occhiate di nascosto. Volevo imprimere nella memoria il suo viso. Lei, rannicchiata sul sedile, mi sembrava una bambina impaurita.
Un viaggio silenzioso conclusosi nel cavernoso e immenso spazio delle partenze internazionali dell’aeroporto di Fiumicino.
Una lacrima, un lunghissimo abbraccio, una mano a frugare nella borsa ed una busta che mi arriva tra le mani. Era pesante nella sua leggerezza perché sapevo che avrei faticato a leggerne il contenuto.
Ho visto la sua testa chinarsi, lei che si gira e si allontana. Nel suo portamento c’era qualcosa di strano, non era la sua solita camminata sicura. Portava addosso il peso di mille scelte e di un addio.
Son rimasto lì finché non l’ho più intravista tra la folla, dopodiché mi sono ritrovato davanti ad una tazza di caffè, seduto su uno sgabello, a fissare il vuoto. Avrei preferito annegare in un mare di Jack Daniel’s.
Ricordo esattamente che durante il viaggio di ritorno alla radio ho ascoltato la sua canzone, poco più di tre minuti che in quel momento ho deciso di non ascoltare mai più.
La busta che mi aveva dato era sul sedile che fino a poco prima lei aveva occupato.
Sono tornato alla piazzetta, mi sono seduto sugli stessi gradini, più o meno nello stesso punto in cui ero quando ormai la sera prima l’ho vista arrivare. Ho aperto la busta.
C era un foglio, scritto con una calligrafia sottile, ordinata. C’erano 5 fotografie, 5 scatti che avrebbero potuto raccontare la nostra amicizia. A guardarle bene, raccontavano più di un’amicizia. Parlavano, urlavano di qualcosa che sarebbe potuto succedere, ma che non sarà mai. Richiusi la busta lasciando fuori solo una delle cinque foto, in cui un amico ci aveva immortalati mentre ci guardavamo, seduti ai lati opposti di un tavolo durante una cena.
L’ultima sigaretta della notte la fumo guardando il buio che cede pian piano il posto ad una pallida alba, con in mano una fotografia.
@immaginoleggero