Caro amico … ti scrivo.
Lo faccio ora, anche se avrei dovuto farlo 30 anni fa, ma si sa … non è mai troppo tardi.
Lo so che ti ho deluso, che mi hai chiamato tante volte in questi anni e io non ho mai risposto.
Ma so anche che avrai capito.
D’altronde sei scappato via quel giorno, di fretta, senza un saluto, senza un perché, senza che potessi fermarti. Hai voluto lasciare tutti qui, nella tua città, per andare a cercare fortuna altrove. Chissà se poi l’avrai trovata.
Avrei voluto chiamarti, sai? Soprattutto i primi giorni, quelli in cui la tua lontananza si è fatta sentire di più, si è fatta quasi insopportabile. Ma poi non ho voluto disturbarti; chissà quante persone nuove dovevi conoscere, incontrare, dovevi abituarti alla tua nuova realtà, ai tuoi nuovi spazi, alla tua nuova vita.
Ricordi? Io avevo appena iniziato a lavorare e tu mi dicevi sempre “Vedrai che questo è solo l’inizio, tu meriti molto più che fare bolle nel magazzino di una tintoria industriale”.
Tu invece stavi ancora cercando la tua vera strada. La vita del contabile era troppo stretta per te, anche se ti eri diplomato quasi con il massimo dei voti. La tua vera vena spaziava tra la musica e la chimica. E io lo sapevo bene.
Mi avevi “accolto” fin dai primi giorni di scuola superiore, io timido in una classe con persone a me completamente sconosciute, persone di città mentre io venivo dal paesello. Tu, al contrario, vivace e spensierato, fisicamente così simile ad un tennista che si stava affermando proprio in quegli anni: Ivan Lendl.
E da lì non ci eravamo mai separati, né a scuola né nel tempo libero. Quante volte ero venuto a casa tua e rimanevo ad ascoltarti, quasi allibito, quando imbracciavi la tua chitarra, quella classica o quella elettrica, ed iniziavi a suonare, a volte facendomi venire i capelli dritti. Altre volte ti facevo da assistente nei tuoi esperimenti chimici, una passione che un professore un po’ burbero era riuscito ad inculcarti nonostante l’indirizzo scolastico non fosse quello adatto. Esperimenti che a volte venivano, altre no, ma tanto che fa … l’importante per te era provarci perché tu eri così, un po’ come “San Tommaso”. E poi i giri in motorino su e giù per le vie di quella cittadina, ancora non intasate dal traffico delle auto. Gli amici (ricordi Stefano? Anche lui partì qualche anno dopo, chissà se vi siete incontrati), i primi amori, le prime avventure, le prime vacanze estive solitarie, sempre insieme.
Fino a quella sera di mezza estate (il mio anno di servizio militare ci aveva un po’ allontanato) quando venisti a trovarmi a casa e mi dicesti che eri stato fortunato … ti avevano riformato per via di quella cicatrice al collo e quindi lavoravi di già.
Quella notte non riuscii a dormire … pensavo e ripensavo e avevo sempre davanti agli occhi quella cicatrice che conoscevo così bene e di cui tu raccontavi così poco. Anche se i nostri incontri si erano diradati, a causa dei rispettivi lavori, ci vedevamo spesso, fino a quel giorno in cui mi dissero che eri stato ricoverato.
Sembrava una cosa da nulla inizialmente, così mi avevano detto, ma non uscivi. Poi i trasferimenti, prima a Modena, poi a Bologna.
Ti ho seguito ovunque, ogni sabato venivo a Bologna, estate e inverno, solo o in compagnia, per quasi un anno e spesso eri tu che facevi coraggio a me, magari mentre spingevo la carrozzina nel parco del “Maggiore” o anche quando non avevi più la forza di alzarti.
Fino a quando sei scappato via quel giorno di S. Stefano, di fretta, senza un saluto, senza un perché, senza avvertirmi, senza che potessi fermarti.
A braccia ti ho portato il giorno del funerale, ma quando sono risuonate le note del “Silenzio” non ce l’ho fatta e sono scappato, via da lì, via da te, senza un saluto, senza un perché.
Sei venuto tante volte a chiamarmi in sogno, volevi che tornassi e che ti dicessi le cose che mai sono riuscito a raccontarti.
Te le scrivo oggi, so che dovunque tu possa essere le leggerai.
Gimbo67 per @tantipensieri
Immagine dal web