– Fermo tu, mi dice quello con il basco giamaicano, allontanando il coltello dalla gola del mio amico Bern e indirizzandolo verso di me.
Non mi sono mosso, con la paura che ho non azzardo alcun movimento. Il complice controlla me e il vicolo, anche lui con una lama in mano.
– Allora, non te l’avevo detto che se lo rifacevi finivi male?, dice il rasta premendo il coltello dalla parte piatta sul collo di Bern che deglutisce con difficoltà.
Alzo piano una mano, come per chiedere il permesso di parlare. Il mio guardiano mi afferra per la spalla e mi punta il coltello dietro l’orecchio. Il capo solleva gli occhi.
– È lui che voglio. Vattene.
Non lascio gli amici in difficoltà. Anche se infastidire la sorella dodicenne di Barnabas coltello facile non è uno scherzo. Riparto alla carica.
– Senti amico, non mi sembra il caso di…
Il giamaicano non mi lascia finire.
– Stronzetto, non te l’ho già detto di farti i cazzi tuoi? Il tuo amico deve morire. Ha il vizio delle bambine e stavolta ha passato il limite. Se non vuoi fare la sua stessa fine vattene.
Mi sembra piuttosto deciso, per paura che io non avessi capito l’amico mi stritola la spalla e mi preme la punta del coltello dietro l’orecchio.
Barnabas trattiene Bern per il bavero della giacca. Poi lo fa scivolare piano fino a farlo sedere tra i rifiuti. Si accovaccia e con la punta del coltello gli disegna sul collo geometrie strane. Come un disegno tribale che vedo solo per pochi attimi, prima che il sangue unisca quei tratti in una trama complessa.
Nel rimettere la punta del coltello sotto il mento di Bern, la lama, riflettendo il sole, mi acceca per un attimo.
Lo stesso luccichìo di tanti anni fa. Quando mio padre, fuori della nostra casa di Swindon, minacciava Bud con un coltellaccio, reggendolo per il collare.
C’eravamo trasferiti da poco e la scuola non era ancora iniziata. Avevo dieci anni, undici quasi, e quel cane era il mio unico amico. Magrissimo, si era avvicinato con sospetto per bere dell’acqua da un secchio lasciato sul prato davanti casa. Diventammo amici in un attimo. Passavamo tutto il tempo insieme. Lo facevo dormire nel capanno degli attrezzi. Una cuccia fatta con il guscio di una culla abbandonata. Gli portavo anche cibo comprato di nascosto e avanzi della nostra tavola, perché mio padre mal lo tollerava. In poco tempo si rimise in forze e divenne giocoso.
Però feci male a dargli dei dolci o forse mangiò in strada qualcosa di avariato e la combinò grossa. Saltò sui sedili della nostra macchina lasciata con gli sportelli aperti e li imbrattò tutti. Mio padre s’infuriò come non lo vidi più in vita mia, anche se per lui arrabbiarsi non era un evento raro da quando aveva perduto il lavoro.
– Entra in casa, tu, mi disse e giù botte a Bud.
– Ti ho detto di entrare se non vuoi vederlo soffrire, aggiunse con tono ubriaco.
Lo scongiurai di non fargli del male, piansi, mi disperai, cercando con gli occhi qualunque aiuto possibile.
– Entra in casa, altrimenti lo ammazzo, concluse senza che potessi replicare.
Corsi nella mia stanza e mi tuffai sul letto. Tenni il cuscino schiacciato sulla testa per un tempo infinito. Ricordo che piansi così a lungo, dando pugni sul materasso, che quando uscii era buio.
L’auto di mio padre non c’era.
La notte dormii poco e male. Sognai strane figure senza viso e tutti gli animali del mondo. Cani no. E lame che brillavano, che si animavano e mi ridevano beffarde in faccia.
Il ghigno del rasta è spettrale, pochi denti e anche marci; li spara in faccia a Bern, accostando il viso a sfiorare quello del mio amico.
– Bastardo, lo sai che da qui te ne vai in un sacco?, lo minaccia, sfregiandogli ancora la guancia con il filo del coltello.
Il complice ride della battuta e mi mostra il suo coltello, senza mollare la mia spalla, per rafforzare la minaccia del capo.
Decido che è ora di giocare il tutto per tutto.
– Lascialo, per favore. Sta per arruolarsi. Lo spediscono all’estero. Non lo vedrai più. Garantisco io che fino alla partenza non darà fastidio a nessuno, l’ho buttata lì, voglio solo salvare la mia pelle e quella di Bern.
– Non dire cazzate, amico. Questo stronzo in qualche paese di merda? Certo, va bene, è un cacasotto, ma se fosse vero le ragazzine avrebbero un bel problema con questo porco tra i piedi, mi fa notare il rasta con qualche ragione.
– Ma…, provo a dire, il nero mi fa tacere sferrandomi sul mento un pugno con la mano che stringe il coltello. Mi accascio in terra.
– Ecco un altro combattente, ironizza Barnabas.
Mi metto seduto con le gambe incrociate sotto lo sguardo vigile del mio carceriere, tenendomi il mento. Bern è pallido. Non ha detto una parola, come fosse diventato muto. La paura di morire lo rende diverso, non riconosco più lo sputaparole al quale sono abituato.
È ora di uscirne. Faccio un cenno con la mano, come per dire risolvo tutto io. Il nero non lo interpreta correttamente perché spingendomi sulla spalla mi ricaccia a sedere. Lo guardo e intuisco che non è il caso di star lì a chiarire che non avevo intenzioni bellicose.
Da terra tento una disperata difesa.
– Senti, lo so. Il mio amico è una merda. Ma ha capito la lezione. Lascialo, gli dico. Poi, per muoverlo a pietà, mi umilio.
– Ti prego.
– Stronzetto – ormai gli piace chiamarmi così – non ti riesce proprio di farti i cazzi tuoi. Tu non c’entri, te lo dico per l’ultima volta, vattene a casa.
Non ho molte possibilità, me ne rendo conto. Mi alzo in piedi, tenuto sotto controllo dall’altro, valuto che con un buon colpo potrei stenderlo e poi con l’aiuto di Bern, sempre che resti vivo e capisca al volo, sopraffare Bob Marley.
La lama sotto la gola del mio amico mi abbaglia di nuovo gli occhi.
Penso a Bud, se non sono riuscito a salvare lui, come posso salvare un porco, mi domando mentre giro di corsa l’angolo.
(immagine da web)
Sthepezz
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