Salto nel buio

Non ricordava bene dove si trovasse. Sentiva un leggero formicolio lungo le braccia e aveva dolori ovunque. L’odore in quella stanza gli ricordava quello dell’ospedale, dove era stato ricoverato suo padre prima di morire, forse anche lui era in ospedale o forse no. Provò a muoversi nel letto ma le gambe non rispondevano ai comandi, provò a muovere le mani: nonostante la fatica che gli costava, riuscì a muovere le dita di entrambe le mani. Riprovò a muovere le gambe ma, nonostante si sforzasse fino allo sfinimento, le gambe erano di pietra e non si mossero di un centimetro. Forse era morto, forse quella era l’immobilita dei defunti, sarebbe rimasto prigioniero nel suo corpo per sempre. Il pensiero lo spaventò, si sforzò di ricordare cosa fosse successo e dove si trovava. Si concentrò: intorno a lui non avvertiva alcun rumore, solo il suo respiro affannoso. Gli venne in mente un fascio di luce, un fascio luminoso e nient’altro.

Una mano lo accarezzava lentamente, sentì del bagnato sulle braccia, forse lo stavano lavando. Sentiva freddo nonostante l’acqua calda, sperava che quel rituale finisse presto. Sentì del bagnato anche sull’altro braccio, e sull’altra mano. Poi gli fu messa la maglia del pigiama. Per un po’ non sentì nulla e si chiese solo se gli stessero lavando le gambe, forse aveva avuto un incidente, forse era stato picchiato o forse era stato rapito. Fu il turno del viso, odiava che gli toccassero il viso ma non riusciva a reagire, sentiva la lametta sulle sue guance, forse gli stavano facendo la barba ma chi e perché? Era immobilizzato, non riusciva a parlare. Dopo un pò sentì un’altra presenza nella stanza, qualcuno che gli apriva gli occhi e gli tastava il polso. Qualcuno parlò ma non riuscì a distinguere né il tipo di voce né le parole, poi più nulla. Aprì gli occhi all’improvviso, davanti a lui gli oggetti, inizialmente sfocati, iniziarono a prendere forma. Era una stanza molto semplice e piccola, sembrava la stanza di un ospedale, mosse piano la mano destra, poi furono il turno della sinistra, entrambe le mani rispondevano ai comandi. Provò a muovere le braccia, prima il destro e poi il sinistro, nonostante il dolore, anche le braccia si muovevano. Provò a muovere il collo ma lo sentì bloccato, si portò una mano alla gola e toccò qualcosa di rigido, aveva forse un collare ortopedico? Fu il turno delle gambe, nonostante si sforzasse con tutto se stesso non riusciva ancora a muoverle. Lo sforzo e la tensione gli procuravano fitte in ogni parte del corpo ma sulle gambe nulla. Sentì delle goccioline di sudore scendergli sul viso, forse si era sforzato troppo, forse gli avevano sedato le gambe, s’impose di non pensare, si sentiva stanco, gli era costato un’immensa fatica valutare la risposta del suo fisico, decise di riposare.

Qualcuno armeggiava accanto al suo letto, aprì gli occhi all’improvviso, la ragazza che gli stava sistemando la flebo lanciò un urlo e scappò fuori dalla stanza; torno 2 minuti dopo con un uomo che gli si avvicinò e gli chiese:” Mi sente”?, poi senza aspettare risposta iniziò a testare tutto il suo corpo. “Cosa mi è successo?” chiese con voce malapena udibile. “È stato investito, ora è in ospedale e la stiamo curando, stia tranquillo”, rispose il medico. Avrebbe voluto chiedere tante altre cose ma non ne aveva la forza, forse era stato in coma o la macchina gli era passata sopra varie volte perché le ossa del suo corpo gli dolevano. Dopo aver dato istruzioni all’infermiera, il dottore lasciò la stanza. “Chi mi ha portato qui”? Perché non ricordo nulla”? “I passanti hanno chiamato il 118, è arrivato in ambulanza. Ha una leggera amnesia, è normale quando si subisce un duro colpo, stia tranquillo come le ha suggerito il dottore, vedrà che si riprenderà presto”. “Da quando tempo sono qui? Perché non riesco a muovere le gambe?”. L’infermiera gli iniettò qualcosa e gli disse:” basta domande, deve riposare”. Il sedativo fece subito effetto. Un’ ombra nera si muoveva per la stanza, sembrava cercasse qualcosa, si muoveva con sveltezza, chiuse e riaprì gli occhi, l’immagine si fece più nitida, nella stanza non c’era nessuno, forse aveva sognato, o forse no? Sognava spesso di essere rincorso e aggredito, sognava di fuggire, ma da cosa? e soprattutto da chi? Guardò fuori, era buio ma sentiva un vociare nel corridoio, era l’orario delle visite. Perché nessuno veniva a trovarlo? Non aveva parenti, amici o conoscenti? La sua famiglia perché non lo cercava? Arrivò anche l’ora della cena e tutto si svolse con lentezza. Provò a buttar giù un po’ di pastina, era quella la sua cena, una cena leggera, cosi gli aveva detto l’infermiera. Dopo tre cucchiai scostò il piatto, guadagnandosi un’occhiataccia dalla donna che le stava preparando la flebo. “Deve mangiare, deve sforzarsi, così si rimetterà presto e piano piano sospenderemo le flebo”. Lui non rispose, né continuò a mangiare. Forse fece sorgere un po’ di pietà in quella donna che gentilmente gli tolse il vassoio: “e va bene, anche tre cucchiai vanno bene, è la prima volta che mangia dopo due mesi di coma. Domani ha una serie di esami da fare, verranno a prenderla alle 8”. Si congedò col vassoio. Era stato in coma due mesi perciò non riusciva a ricordare, in due mesi nessuno lo aveva cercato? Era forse senza famiglia? Erano domande senza risposta.

La giornata era stata pesante, si era sottoposto a tanti accertamenti, ormai aveva perso il conto; secondo lui aveva fatto tutti gli esami previsti dal servizio sanitario nazionale. Nessuno si era pronunciato sulle sue gambe che continuavano a non rispondere ai comandi. A pranzo si era rifiutò di mangiare. Il vociare gli ricordò l’orario delle visite ma da lui nessuno sarebbe venuto. Stava sulla sedia a rotelle e guardava fuori, il tramonto era spettacolare, gli venne voglia di uscire e abbandonare l’ospedale ma già gli avevano detto che la riabilitazione era lunga. Un uomo entrò nella stanza e si mise a gambe divaricate davanti al suo letto. Si scrutarono a lungo in silenzio, non riusciva a ricordare chi fosse ma dallo sguardo dell’altro capì che si conoscevano. “Non mi saluti”? Domandò lo sconosciuto mettendosi a braccia conserte. “Io non la conosco”.
L’altro rimase colpito da quella risposta.
“Non fare lo stupido con me, io non ci casco”. “Non farebbe meglio a dirmi chi è e cosa vuole da me? Come può vedere non sono in vena di scherzi”. L’altro continuò a scrutarlo in silenzio, poi si avvicinò al suo volto e disse a bassa voce: ” Voglio la mia parte, che tu finga o stia davvero male non m’interessa, voglio solo sapere dove hai messo il bottino, cerca di ricordarlo altrimenti la prossima volta non ti salverai”, gli pizzicò la guancia e lasciò la stanza. Il ricordo di quell’incontro non gli fece chiudere occhio per tutta la notte ma al mattino l’enigma, di chi fosse quello sconosciuto e cosa volesse da lui, ancora non si era risolto.

Era a casa, nel suo appartamento, almeno così gli avevano detto i medici quando lo avevano accompagnato a casa. Aveva perso l’uso delle gambe, la spina dorsale aveva riportato delle lesioni, l’impatto era stato troppo violento. Nessuno della famiglia era mai andato a trovarlo in ospedale, nessuno gli aveva telefonato. Aveva assunto un badante per la notte perché da solo era impossibile vivere in quelle condizioni. Nonostante l’ora tarda non gli veniva sonno, sentì il bisogno di bere, con la mano testò il comodino e prese il bicchiere ma era mezzo vuoto. Chiamò il suo badante che però non sopraggiunse. Sentì la tv ancora accesa nella sua camera, forse si era addormentato e chiamò alzando ancora di più la voce. L’unica risposta che ebbe fu il vociare della tv. Provò a scendere dal letto facendo attenzione ad appoggiare le mani sul pavimento per evitare di cadere con il corpo ma non poté fare altro che strisciare lasciando che cadessero a terra anche le gambe. Strisciò fino alla stanza del ragazzo ma il letto era vuoto, la tv accesa. Vide un’ombra immobile davanti al balcone della stanza e urlò. Strisciò velocemente accanto a quel corpo inerme scuotendolo con la mano. Il badante mormorò una scusa e continuò a dormire profondamente. Dall’odore dell’alito capì che aveva bevuto molto e che era ubriaco, la rabbia prese il sopravvento e cominciò a scuoterlo “vattene dalla mia casa, non serve un ubriaco a chi è nelle mie condizioni”.
Un rumore dei passi alle sua spalle, lo costrinse a girarsi e ad interrompere lo scossone.
“Dove li hai messi?” , ecco di nuovo quell’ uomo che era venuto a trovarlo in ospedale.
“Che ci fai in casa mia? Come sei entrato”?
Come risposta, lo sconosciuto gli calpestò la mano. Urlò di dolore e capendo di essere in pericolo continuò a scuotere il suo badante. “Inutile che lo scuoti, l’ho drogato e poi gli ho fatto bere un po’ di vodka. Davanti al suo sguardo perplesso continuò: “Davvero non ti ricordi nulla allora, pensavo fosse una recita per non assumerti le tue responsabilità. Io e te siamo complici, perciò io ho le tue chiavi e tu hai le mie, abbiamo fatto una rapina ma hai rifiutato di darmi la parte e ti ho investito. Dimmi dov’è la mia parte”! L’altro rispose: “Io non so se è vero quello che mi stai dicendo, se è vero, non so dove sia perché non ricordo nulla”. Gli arrivo una coltellata sulla mano già ferita e dolorante. Urlò di dolore senza riuscire a muoversi, sentirsi impotente era terribile. “Se non sai dirmi dove hai nascosto i gioielli, pagherai con la vita perché la colpa è sempre tua, avresti dovuto rispondermi quando eri in grado”, gli lanciò un calcio che lo spostò sul pavimento e gli fece perdere i sensi dal dolore.

L’acqua fredda sul volto lo destò di soprassalto, non era più in camera ma sul divano in posizione supina. Aveva le braccia legate dietro la schiena. Il suo passato gli riaffiorava lentamente, come un film visto con la moviola. Il colpo alla gioielleria, la fuga col complice, il rifiuto di dividere l’incidente. Gli era costato caro il suo desiderio di ricchezza perché ora neanche tutto l’oro del mondo gli avrebbe restituito le gambe e la normalità. Il suo aggressore era davanti a lui, un coltello affilato brillava nella sua mano. Gli si avvicinò la punta del coltello gli pungeva la gola. “Dove sono i gioielli”? “Non mi ricordo, non lo so”, mentì spudoratamente nonostante ricordasse dove fossero. Gli colpì la guancia che iniziò a sanguinare, stava per sferrargli un secondo colpo quando fu bloccato da due braccia muscolose. Il coltello volò lontano, ci fu una colluttazione violenta, vedeva rotolare sul pavimento il suo complice e il suo badante, si alternavano con un susseguirsi di calci e pugni. Incapace di muoversi chiuse gli occhi e attese. Li riaprì quando non sentì piu alcun rumore ma solo un respiro affannoso. Il suo complice era a terra, respirava quindi non era morto ma solo svenuto, il badante seduto e appoggiato al muro respirava affannosamente. La ferita gli sanguinava molto, provò a pulirsi con il cuscino del divano ma si imbrattò tutto il volto di sangue. “Chiamo un’ambulanza”? Guardò l’uomo che gli aveva salvato la vita con riconoscenza, “Sì, grazie. Chiama anche la polizia per favore” e davanti al suo sguardo stupito continuò ” abbiamo commesso un reato e dobbiamo pagare, entrambi” sottolineò guardando il complice.
Forse solo espiando la sua colpa si sarebbe sentito meglio.

The end

Giovanna Viola @GViola16

Immagini dal web

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