Un ristorante, a Sestri*

Non stava. Lui camminava, avanti e indietro sul pontile reso ristorante. Tutto era avvolto dal mare, lui per primo. Una frangia di costruzione, tavoli bianchi e bicchieri blu.
No, nessuna fantasia. L’hanno pensato tutti, prima che arrivasse il gabbiano e le sue ali.
Le maniche del maglioncino, avvolto con delicatezza al collo, di un marrone chiaro a illuminare l’azzurra camiciola, scendevano sul petto.
No, nessuna fantasia. Ma una vaga e fragile eleganza, sufficiente per elogiare la freschezza del pesce, chiunque l’avrebbe potuta riconoscere.
Le Dino Ferrari se ne stavano parcheggiate ancora dentro i suoi occhi: improvvisamente gli Anni Sessanta. Mai visti così da vicino. Lui li aveva attraversati, lì, tra i tavoli. Piatti e parole, rimaste sporche di rossetto, sospese tra i cerimoniali. A fine serata i conti, però, tornavano sempre. Gliel’hai chiesto, no, come andavano gli affari.
Il cuore lo stava perdendo per una questione legale. Ho sperato fino all’ultimo parlasse di quella donna. Tutti ne hanno una tra le onde delle lenzuola, per quando il mare finisce.
Ma certo, ce la faccia vedere la foto di com’era il locale prima che lei arrivasse! Era già avanti, aveva il jukeboxe, ci passavano i Vip.
La fase di ristrutturazione finirà tra poco, a Pasqua la stagione riparte. Anche l’elettricista ha trovato innovativo il cavo da usare nella parte nuova. Come si è allargato, Roberto, lì in un angolo con una musica vecchia di un defunto compaesano, uno di Sestri.
Il suo attico in Georgia mi sembra così lontano adesso. La storia del nome non la ricordo bene, parlava di un battaglione, San Marco, di una commemorazione.
Non è stato semplice avere i permessi, dobbiamo sempre chiedere: “si può?”. È che strofinare i piedi sullo zerbino prima di entrare a me piace ancora tanto. Anche a lei piace osare e ha osato, lo si nota, nonostante quella catenina in caucciù con dorata una croce al centro e qualche braccialetto più giovane della sua età.
Per tredici ore al giorno la libertà in ogni punto cardinale. Lei è l’unico degno di non invidiare il gabbiano. Lo sente come lo invidio, vero? Quasi quasi vengo a fare da lei la stagione. Non chiederò se c’è da lavorare anche la sera, la domenica, il sabato. Mi insegni solo a scivolare così bene tra le sedie, tra le vite, a fingere interesse, a interessarmi. Un po’ di sporcizia farà bene. Dicono che il sale disinfetti ogni ferita.
Le metrature, le attività, i possibili spazi sono roba d’altri. Tu ci vedi l’angolo delle colazioni e un lounge bar mentre io cerco i passi di chi è passato. Quanti occhi si saranno incrociati. Quanti ne ha visti, Roberto?
Di questa parte non mi pagano l’affitto. Ecco, ti ha portato dove volevi andare; ti risponde come fosse un altro a cui chiedere le cose di sempre. L’alterità fa parte del Menù.
I tratti di un rocker quasi alla fine che aspetta la barca che non viene se non vuota, glielo stavo per dire della somiglianza, non era il momento. Nel congedo della sua stretta di mano ho afferrato tutto. Peccato non conosca il mio nome.

*Articolo precedentemente apparso su  http://www.cct-seecity.com/
 
Alessandra Corbetta
www.alessandracorbetta.net

Condividi

Leave a comment

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.