Ho detto giovinezza, badate bene, e non gioventù.
Ci tengo particolarmente a marcare la differenza fra i due termini, per quanto la grammatica italiana si ostini nella stupida presunzione di accorparli sotto al medesimo significato.
Per me la giovinezza è qualcosa di diverso; mentre la gioventù se ne sta lì, con quell’antiestetico accento sulla “u” che te la fa già leggere come un qualcosa di appartenente al passato, la giovinezza con quelle due belle “zeta” forti e possenti mi appare più come una promessa sempre nuova di condizione perenne dell’uomo, se non fisica quantomeno mentale.
Certo, è banale credere che si possa restare giovani per sempre, che la mente non invecchi e che anche il corpo, a trattarlo bene, ti segua di buon grado.
Paradossalmente –ma questa è soltanto una mia considerazione personale che vi esorto a non prendere troppo sul serio– trovo che sia una vera idiozia preservarsi fino a far del proprio corpo uno scrigno prezioso da usare con cautela in vista di chissà quale miraggio di vita eterna; il corpo va sfruttato, va portato all’esasperazione delle proprie potenzialità, così da temprarlo per i giorni incolori della vecchiaia, quando le sole medicine in grado di garantire una dignitosa sopravvivenza saranno quelle tre o quattro fialette giornaliere da 5 mg. di ricordi in forma liquida, peraltro non prescrivibili da nessun medico curante.
La giovinezza, se vissuta bene, rende persino sopportabile l’atto stesso dell’invecchiare facendo sì che i segni del tempo si attacchino ben visibili sulla pelle come fossero delle medaglie al valore guadagnate eroicamente sul campo della vita e da esibire col massimo orgoglio.
Ma più di tutto, intendo la giovinezza come una seconda madre, come un utero enorme da quale si nasce una seconda volta; un gigantesco sacco amniotico dal quale, in un dato momento mai uguale per tutti, ne vieni fuori completamente innovato e diverso. Più vero e più fragile, dunque più forte: in ogni caso, irreversibilmente più tu.
Insomma, la nostra giovinezza ci partorisce una seconda volta e dopo averci messi al mondo se ne resterà lì come una madre apprensiva, a due passi da noi, praticamente per sempre. Non per guidarci, sia chiaro, né per farsi i fatti nostri, ma soltanto per il sadico gusto di farsi guardare, di farsi rimpiangere, di sventolarci sotto al naso i ricordi impalpabili di quei giorni in cui tutto ci sembrava possibile, di quegli anni meravigliosi in cui il coraggio d’avere coraggio lo compravi nei pub e il rimedio per non annoiarti ce l’avevi nel pube.
Credo, quindi, che occorrerebbe davvero educare i giovani verso un uso più responsabile della propria giovinezza, magari integrando l’argomento tra le materie scolastiche al posto delle inutili ore dedicate alla religione; insegnar loro a vivere la propria giovinezza come fosse un campo nel quale coltivare emozioni o un cantiere nel quale costruire ricordi. Bisognerebbe davvero spiegare ai bambini che la giovinezza è l’unico momento della vita in cui è possibile essere liberi e che la libertà, se usata responsabilmente, è qualcosa di alto, di molto vicino all’onnipotenza.
Dura un istante, la giovinezza, e c’è da esser lesti a conservarne i ricordi, magari non tutti ma soltanto i migliori; il primo bacio, la prima sbornia, il primo dopobarba, il primo sesso, l’odore delle notti trascorse per strada, quell’unico brano che hai amato di più. Cose così, insomma. Cose che, credetemi, se solo le vendessero al Bazar dei Ricordi, le pagheremmo anche tremila volte il loro valore pur di riviverle ancora un sol giorno; fosse anche l’ultimo, da dare in baratto per quei troppi istanti della nostra giovinezza che non ricordiamo poiché con il tempo a nostro favore eravamo bellezza e la bellezza, quand’è vera, distrae.
“Non dovrebbe fuggire, la giovinezza, ma restarsene lì a farci sbagliare.
A esserci sesso, potenza e demonio.
A renderci eterni; magari fino a domani.”
Il Conte Nudo | 2017
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