(Racconto ispirato alla canzone “La vedova bianca” degli Afterhours)
Lui l’attirò a sé con decisione e la baciò. Le loro lingue si legarono in una danza che entrambi avevano a lungo immaginato. Lei gli fece scivolare le dita tra i capelli, sulla nuca; era da tanto che desiderava farlo, da quando aveva visto la sua chioma da baci. Ricordò per un attimo quando gli confessò il suo desiderio di intrecciare le dita ai suoi capelli: “Prometto che non ti tocco il ciuffo da acchiappo” lo prese bonariamente in giro. “Tu puoi tutto.” le rispose lui. Senza rompere il contatto a lungo agognato, lui la condusse all’interno della stanza e, con un calcio, richiuse dietro di loro la porta. “Lo sai da quant’è che aspettavo questo momento? Ne hai anche solo una vaga idea?” le sussurrò a fior di labbra, senza quasi neanche interrompere il contatto. “Siamo simili tu e io. La normalità delle nostre vite fuori di qui ci stava lentamente uccidendo.” E riprese a baciarlo. Le mani di entrambi presero ad armeggiare febbrilmente con bottoni, cinture, cerniere e gancetti vari. “Non hai paura di pentirtene, poi?” esitò lui, sovrastandola su quell’enorme letto.
Lei se ne guardò bene dal divincolarsi dalla sua presa che le teneva fermi i polsi al di sopra della testa; semplicemente lo fissò negli occhi, protese la testa verso il suo viso e gli depositò un bacio sulle labbra senza mai interrompere il contatto visivo. Poi aggiunse: “Una volta qualcuno ha detto che i sogni sono come angeli, tengono a bada il male, e l’amore è la luce che caccia via le tenebre. Ecco, è esattamente così che mi sento da quando ti conosco. Ti amo, ciò che mi lega a te è così forte che non ho più paura dei miei demoni.”
Aveva perso il tempo e il senso già da un pezzo, mentre stava in quel vortice di appassionato distacco dal mondo e dalla sua stupida gente. E non credeva alle parole che stava dicendo, ma nel dirle le piaceva credere che fossero vere. L’amore non sarebbe più esistito per lei. Lui, forse, ci credeva ancora. Aveva qualcosa di dissonante, lo si sentiva. La loro unione era solo un coacervo di sbagli.
Era nell’attimo, come tutte le cose. Ancora i suoi capelli tra le mani, la goduria del tatto e della gola, l’attesa liquida. Pregava nella mente che le sostanze chimiche del loro corpi accompagnassero bene gli ingranaggi meccanici; sperava che la finzione di quell’ennesimo dentro spazzasse via gli incubi che lo stare fuori dagli altri le provocava. Pensava alle nuvole, a come sapessero ingannare.
“Vieni a fare un giro dentro di me o questo fuoco si consumerà da sé” gli sussurrò all’orecchio destro, prima di leccarglielo tutto e assaporarne con gusto il lobo. Lui non aveva capito cosa lei intendesse con quella frase, ma lo aveva fatto letteralmente impazzire. La amava, ne era certo. In fondo aveva sempre pensato che l’amore fosse una faccenda semplice, se presa nel verso giusto. La lingua in bocca, i polsi fermi, i corpi seminudi, le luci basse. Andava bloccato così l’amore, altrimenti si dava subito alla fuga. Lui lo sapeva. Anche lei lo sapeva. Le coperte della stabilità lo avrebbero distrutto, ma tra loro non c’erano coperte, solo un lenzuolo leggero a rivestire per gioco i giochi della vita e della morte.
Sembrano speciali le cose belle quando capitano per la prima volta o quando vengono dimenticate e accadono di nuovo. Sembrano speciali anche quando non lo sono ma pensiamo lo siano: anzi, è qui che sono speciali davvero. L’aveva pensato lei. O forse l’aveva pensato lui.
Nonostante la sporcizia dolorosa che il male subito aveva lasciato nelle loro anime, c’era una purezza estrema in quella camera.
Alessandra Corbetta e @2FIRSTLINE