Ogni persona e ogni personaggio appartenente all’odierna società consumistica e food-oriented dovrebbe averlo sul comodino; anzi, dovrebbe tenerlo riposto su una mensola della cucina e, da lì, decidere se gustarlo a poco a poco oppure divorarlo in un sol boccone.
Perché il recente saggio dell’antropologo Marino Niola Homo Dieteticus. Viaggio nelle tribù alimentari è in grado di adattarsi perfettamente alle abitudini culinarie di chiunque: non lascerà insoddisfatti i sostenitori del vegan-food, non renderà necessari reclami da parte dei lattofobi, susciterà entusiasmo anche nei fanatici del sushi.
Niola, infatti, con sprezzante ironia e ben motivato criticismo, sposta il focus di analisi dalle caratteristiche nutrizionali e salutistiche di ciò che riempie/svuota i nostri piatti alle ripercussioni sociali e relazionali che questo esercita sulle nostre anime, dove il rapporto vuoto/pieno pende, in questo caso, completamente dalla parte del vuoto.
La sociologia del corpo sta cercando di mettere in luce, ormai da diversi anni, passando dai corpi docili di Foucault, fino a quelli flessibili teorizzati, tra gli altri, da Borgna, annoverando l’idea del corpo-progetto di Giddens e non escludendo le considerazioni sulla privatizzazione corporea di Bauman, che il corpo, oggetto differente ed estraneo rispetto alla persona che lo possiede, nella società contemporanea, tende sempre più a divenire il dispositivo da cui si comanda e si dirige la normalizzazione dell’anima.
Ci ritroviamo, pertanto, a dover ammettere con Niola, che “il controllo sugli alimenti (da cui passa in via maggioritaria il controllo sul nostro corpo) diventa il succedaneo consolatorio del controllo su una realtà che ci sfugge da ogni parte”.
Il cibo, dunque, da un lato, diviene lo strumento più semplice con cui operare attivamente sul nostro corpo per renderlo quanto più somigliante ai modelli ideali (e perciò irreali e irraggiungibili) proposti con infima veemenza dalla società bio-capitalista che ci fa da padrona; dall’altro assurge a ruolo di mezzo dimostrativo della nostra buona volontà (So stare a dieta! So rinunciare ai carboidrati!), dandoci un immediato riscontro delle nostre buone azioni (Ho perso 5 kg!) e, soprattutto, tendendoci occupati soldi e pensieri (Cosa mangerò domani?).
I casi ogni giorno più frequenti di anoressia e bulimia, la crescente diffusione di disturbi alimentari e il subentrare di situazioni di ortoressia, cioè di ricerca e consumo dei soli alimenti considerati sani, l’aumento di fenomeni trasgressivi legati all’abuso di alcool e sostanze stupefacenti, la discriminazione di soggetti obesi (obesofobia) sono tutti comportamenti dipendenti dall’ossessione crescente nei confronti della pratica alimentare tout-court e dalla demonizzazione dei cosiddetti “peccati di gola”.
Il cibo diventa, seguendo il ragionamento senza fronzoli di Niola, la nuova religione contemporanea che, con i più svariati modelli nutrizionali, riesce a ottenere un numero sempre maggiore di proseliti. E da buona religione vanta al suo interno convinti integralismi, ognuno con la sua personale versione del credo: i no-gluten, i no-carb, i vegani, i vegetariani, i vegansexuals, i crudisti e tanti altri.
“L’Io ha sostituito Dio” scrive Niola: in altre parole, l’Io è il nuovo Dio, un Dio che va in palestra con dedizione, che assume regolarmente integratori, che ha come preoccupazioni giornaliere la circonferenza coscia o la tonicità del bicipite, che mangia poco e solo quello che la sua dieta, nuova “condizione dell’essere”, prescrive.
Un Io-Dio fragile, che gioca a tavola la sua personale e individualissima lotta tra bene e male.
La cibomania, come Niola denuncia senza falsi perbenismi né retoriche di sorta, si inserisce tra le esasperanti applicazioni delle tecnologie del sé in cui gli individui si prodigano con sempre maggior solerzia, finendo con l’indebolire progressivamente se stessi e le relazioni a cui danno vita (“tutti per sé, nessuno per tutti”) a rafforzamento dei meccanismi bio-politici delle grandi organizzazioni internazionali che le fomentano per autoraffozzarsi.
“Per avere un corpo sano, stiamo facendo ammalare la vita”: questo, in sintesi il messaggio che Marino Niola, con la sua analisi diretta e incisiva, vuole lanciare per condurci a rivalutare il cibo e il suo significato, provando a riposizionarlo correttamente all’interno della nostra esistenza su cui, tolto il cibo, dovremmo tornare a riflettere con meno ossessione, più ironia, più umanità.
Magari insieme, a tavola.
Alessandra Corbetta