(Immagine: A-Mors , Pautiero )
Era Maggio 2011.
Nemmeno il secondo ciclo di chemioterapia ebbe i risultati sperati. Dopo una due settimane a casa, rientrai in reparto. Era metà maggio. Si ripeté la scena della doccia.
Dopo un paio di giorni, iniziai una “nuova chemioterapia”. Il primario, con poca delicatezza, cercò di incoraggiarmi:
– “Questa nuova chemio ci costa quasi 100.000 euro, quindi deve funzionare per forza”.
Mi incoraggiò ben poco. Anzi, mi sentii povero, in colpa e sopratutto impaurito. Ma decisi di non dargli peso, in fondo sapevo che ancora non era giunto il mio momento.
Ricominciò a scendere nelle vene quel composto chimico di colore blu.
La mattina seguente, arrivò un nuovo compagno di stanza. Ricordo ancora la porta che si aprì e spuntò il suo viso dall’oscurità del corridoio. Occhiali da vista, testa pelata e un’età che forse si aggirava intorno ai 40 anni. Passi brevi, stanchi. Le mani che si aggrappavano al braccio dell’infermiera che lo accompagnava. Era debole e si lamentava del forte mal di testa che non gli dava tregua.
Non ebbi il coraggio di rivolgergli la parola, per paura di disturbarlo. Fu lui dopo un po’ che era immobile nel letto a chiedermi:
– “Tu come ti chiami?”
– “Mi chiamo… Francesco”, con voce insicura. Ancora mi chiedevo chi fosse e cosa lo avesse ridotto in quelle condizioni.
– “Io mi chiamo Stefano (nome inventato per la privacy), piacere”. Si fermo un attimo, fece un respiro e poi “Ah Francè, sei di Avellino?”.
– “No Stefano, sono di Battipaglia”
-“Ah e pure io… ma di che parte ‘e Battipaglia?”
E fu così che iniziò la nostra conversazione, iniziò il rito che accomuna i compagni di sventura, quello di raccontarci le nostre storie a vicenda.
Non avevo mai visto Stefano prima. Mi raccontò di come passò gli ultimi due anni della sua vita tra Avellino e Pescara per vincere la sua battaglia contro la leucemia. Mi raccontò di come riuscì a trovare un donatore di midollo osseo compatibile al 60% per fare il trapianto. Si riprese la vita e a coronare il sogno che aveva con la sua compagna: quello di avere un figlio.
Non ricordo il nome della compagna, ma ho l’immagine indelebile di lei che si teneva il pancione al nono mese con la mano sinistra, mentre con la destra teneva in mano l’apparecchio che le permetteva di parlare con Stefano. Con i suoi occhi lo fissava attraverso quel vetro che li divideva. Parlavano a fatica attraverso il citofono, perché lui si affannava anche a parlare. Era stanco, la testa gli scoppiava e le parole pesavano ad ogni sillaba. Ma lei non si arrendeva, voleva stare accanto alla persona amata anche questa volta. Come in passato. Come sempre.
Ho visto l’amore negli occhi di lei.
Quella notte, come le altre, il mio sonno era leggero. Bastò un rumore sordo a svegliarmi. Stordito dal sonno non riuscii a capire subito cosa fosse successo. Levai i miei occhi assonnati dal cuscino. La prima cosa che notai fu la luce del bagno accesa e la porta spalancata. Non vidi Stefano nel suo letto. Pensai che fosse uscito fuori dalla stanza non sentendo rumori dal bagno.Mi alzai, mi affacciai dall’altra parte del suo letto e lo vidi lì, a terra, immobile, steso. Allora capii che il rumore sordo era dovuto alla sua caduta.
Gli infermieri dormivano, non si erano accorti di nulla. Io provavo a suonare il campanello per chiamarli senza risultati. Provai ad avvicinarmi per poterlo aiutare ad alzarsi, ma le chemio mi avevano indebolito troppo e il tubicino di gomma che collegava la mia vena alla terapia non mi facilitava i movimenti. Non potei far altro che aspettare che qualcuno accorresse in soccorso di Stefano.
Arrivarono finalmente due infermiere che presero Stefano di peso e lo sdraiarono sul suo letto. E lo rimproveravano del fatto che non avesse chiesto il pappagallo per urinare.
Io stizzito e irritato da quelle infermiere ignoranti, guardavo inerme la scena seduto sul mio letto. Non chiusi più occhio.
Il giorno seguente fecero degli esami specifici, tra cui la TAC. La leucemia era tornata da Stefano, la TAC invece evidenziò che la caduta della notte precedente gli aveva provocato una emorragia cerebrale. Così il dottore decise di metterlo in una stanza da solo così avrebbe potuto fare di tutto per cercare di recuperare la sua salute.
Ad accarezzarlo con la loro presenza c’erano i suoi genitori. Erano anziani e stanchi, il papà si appisolava sulle sedie nel corridoio, ma nonostante tutto era lì, dalla mattina alle 9 fino alle 10 di sera, per giorni, a vegliare il loro figlio che lottava contro la morte dall’altra parte del vetro. A volte sbirciavo dalla mia vetrata per vedere se erano ancora lì nel corridoio, era l’unico modo per sapere se Stefano fosse ancora vivo. Gli infermieri dicevano che stava bene, ma io sapevo che non era così. Tutti i giorni mi affacciavano e loro erano lì.
Un giorno sembrava festa. C’erano tutti i suoi parenti. Arrivò anche la compagna che non vidi per un po’ ed al suo arrivo capii il perché. Era provata dal parto. Il fratello la spingeva lungo quel corridoio su una carrozzina con le ruote sgonfie e arrugginite racimolata al pronto soccorso. Riuscì a farsi dimettere dall’ospedale prima del dovuto e portare la bambina dal suo papà, sperando che l’amore per sua figlia potesse salvarlo. Ricordo ancora che fecero un’eccezione alle regole. La fecero entrare nella stanza di Stefano per farle abbracciare la figlia. Non so cosa si dissero o se fossero riusciti a parlare, so solo che quel pomeriggio nel reparto tutti si fermarono in un religioso silenzio, come per celebrare il ciclo della vita.
Il giorno dopo non vidi più i genitori di Stefano nel corridoio. Né il giorno successivo. Né quell’altro ancora.
(Continua…)